
Trentatré anni dopo Via D’Amelio, l’Italia rivive il suo dramma più grande. Tra depistaggi, misteri e una verità giudiziaria a tratti disarmante, il “film” delle stragi aspetta ancora il suo vero, e doveroso, finale.
Oggi, 19 luglio 2025, per l’Italia intera, non è solo un anniversario. È il trentatreesimo atto di un dramma collettivo, la scena di un crimine che non ha ancora trovato la sua parola fine. Trentatré anni fa, in un pomeriggio di sangue a Via D’Amelio, Paolo Borsellino e la sua scorta – Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina – vennero strappati alla vita da un’esplosione infernale. Per chi, come me, è nato a Palermo, quella data è più che storia; è una cicatrice profonda, il suono assordante di un’onda d’urto che ancora rimbomba.
Ricordo l’illusione di quegli anni. Percepivamo la mafia come una trama parallela, fatta di “loro”, che agivano senza toccare la “gente normale”. Un copione, per certi versi, fedelmente ricostruito nel film di Pif, La mafia uccide solo d’estate. Persino la militarizzazione di Palermo con l’Operazione Vespri siciliani sembrava, a tratti, un set cinematografico destinato a non coinvolgerci fino in fondo.
Poi, quel 19 luglio. Ero nella casa estiva dei nonni, a Punta Raisi, come dicevamo allora. Rammento ancora l’inspiegabile agitazione dei nostri pastori tedeschi, che, proprio mentre le bombe squarciavano Via D’Amelio, abbaiavano col muso all’insù, come se sentissero l’eco muta di un’esplosione lontana. Pochi istanti dopo, ricordo una interruzione del TG che dava il tremendo annuncio. Il secondo, durissimo colpo.
Solo 57 giorni prima, l’autostrada Palermo-Trapani era stata squarciata a Capaci. Quel tratto era inservibile, un monito concreto di come la violenza avesse dilaniato le nostre infrastrutture e la nostra quotidiana serenità. Quell’illusione di estraneità crollò definitivamente. La mafia non uccideva “solo d’estate” o “solo i mafiosi”; colpiva al cuore dello Stato, al cuore della società civile.
Il processo infinito: attori, depistaggi e verità celate
L’eredità di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone è il faro morale di questa nazione. Il loro sacrificio ha scosso le coscienze, innescando una reazione civile. Eppure, a trentatré anni di distanza, la vicenda giudiziaria di Via D’Amelio assomiglia a un grande film ancora in produzione, con troppi attori, troppe scene tagliate e un finale indefinito.
Inizialmente, le indagini si concentrarono sugli esecutori. Grazie alle confessioni di alcuni collaboratori di giustizia, come Vincenzo Scarantino, si arrivò alle prime condanne dei boss di Cosa Nostra. Sembrava l’inizio di una catarsi. Ma il copione cambiò drammaticamente. Si scoprì un colossale depistaggio: le dichiarazioni di Scarantino erano false, indotte e orchestrate da uomini infedeli delle istituzioni, in particolare da alcuni poliziotti legati al defunto Arnaldo La Barbera. Questo atto di manipolazione ha avvelenato la ricerca della verità per anni, incastrando innocenti e offuscando le reali responsabilità.
Fu solo grazie a un altro collaboratore, Gaspare Spatuzza, e all’incrollabile tenacia di magistrati come il PM Nino Di Matteo, che il depistaggio venne smascherato nel processo “Borsellino quater”, portando a nuove condanne per i mafiosi e per i responsabili della deviazione delle indagini. Ma il “perché” di un tale depistaggio resta una delle domande più inquietanti di questa sceneggiatura oscura.
E poi c’è lei, l’agenda rossa. Il taccuino dove Borsellino annotava i suoi pensieri, i suoi ultimi incontri. Scomparsa dalla scena del crimine, mai più ritrovata. Per la famiglia Borsellino, l’agenda rossa è il “MacGuffin” perfetto di un thriller senza soluzione, il simbolo di una verità celata non dalla mafia bruta, ma da mani ben più insospettabili, all’interno delle stesse istituzioni. Chi l’ha presa? E, soprattutto, cosa conteneva di così devastante da giustificare un’azione così audace e rischiosa?
La trattativa: dietro le quinte e il mandante sconosciuto
Il grande film delle stragi del ’92 e ’93 ha un altro capitolo fondamentale: la Trattativa Stato-Mafia. Un’inchiesta complessa, anch’essa condotta con coraggio da magistrati come Di Matteo, che ha sollevato il sipario su un possibile dialogo sotterraneo tra settori deviati dello Stato e Cosa Nostra. L’ipotesi, pur con alterne fortune giudiziarie, suggerisce che le stragi non fossero solo vendetta, ma forse parte di un accordo, di un negoziato per ottenere reciproci vantaggi o destabilizzare il quadro politico. Borsellino stava indagando su questi pericolosi intrecci, e la sua eliminazione potrebbe essere stata un tragico atto finale per zittire un attore troppo scomodo.
In questo palcoscenico di omissioni e doppie verità, la voce di Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice, è l’eco più potente. Le sue dichiarazioni sono un atto d’accusa contro l’ipocrisia. “Mio padre fu tradito e lasciato solo”, ripete Fiammetta, puntando il dito contro l’isolamento del magistrato negli ultimi 57 giorni, senza tutele adeguate, con magistrati che non lo ascoltarono nonostante la sua urgenza di parlare.
Fiammetta non accetta copioni di comodo. Chiede con forza che si indaghi sui veri mandanti esterni, su quelle “menti raffinatissime” che, forse, hanno tirato i fili della tragedia rimanendo nell’ombra. La sua battaglia è per l’intero pubblico, perché, come sottolinea, “un Paese senza verità non ha futuro”.
La ricerca del finale
Oggi, 19 luglio, la commemorazione non può limitarsi a un semplice omaggio. Deve essere un impegno rinnovato per una verità completa, che non teme di esplorare ogni anfratto di responsabilità. La mafia, pur cambiando volto, resta una minaccia, ma la sua vera forza risiede nella capacità di infiltrarsi e corrompere.
Questa lotta è un dovere collettivo. Richiede memoria, conoscenza e una vigilanza che non ammetta interruzioni. Per chi come me ha vissuto quegli anni, il ricordo di Borsellino e Falcone è un richiamo costante all’etica della responsabilità.
Per UmbriaReport, e per ogni cittadino italiano, condividere questa riflessione significa ribadire che la ricerca della giustizia non ha confini. È un monito potente: non abbassiamo la guardia, continuiamo a scavare, fino a quando ogni ombra sarà dissipata e la verità, finalmente, trionferà. Solo allora, il grande film delle stragi potrà avere il suo vero, e doveroso, finale.
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