Intervista al dott. Giuseppe Fatati
Dalla lezione dimenticata di Ancel Keys al ruolo della carne nella storia e nella dieta contemporanea: il presidente della Fondazione ADI smonta miti e luoghi comuni sull’alimentazione mediterranea, spiegando perché non è una “lista di cibi buoni e cattivi” ma un vero stile di vita.
In un’epoca in cui la comunicazione scientifica viene spesso compressa in titoli e slogan, il rischio è quello di perdere il senso profondo della ricerca. Ne parliamo con il dott. Giuseppe Fatati, voce autorevole della nutrizione clinica italiana, per riportare equilibrio e consapevolezza nel dibattito su ciò che mangiamo e, soprattutto, su come viviamo il cibo.
“La meta-analisi è utile, ma se semplificata troppo diventa ingannevole”
Dottor Fatati, cominciamo dalla scienza. Perché è importante contestualizzare gli studi nutrizionali?
«La meta-analisi è un potente strumento di sintesi perché raccoglie i dati di più ricerche primarie e li rielabora in un quadro generale. È utile, ma non priva di rischi: la semplificazione estrema. Quando chi comunica dimentica di riportare il contesto o le differenze tra i campioni, il messaggio si trasforma in slogan: un alimento diventa “buono” o “cattivo”, come fosse un farmaco o un veleno. Così si perde la complessità e con essa il valore informativo della scienza.»

A parlare non è un divulgatore qualsiasi: Giuseppe Fatati , ternano DOC è stato primario medico di Diabetologia, Dietologia e Nutrizione Clinica presso l’Azienda Ospedaliera di Terni. È autore di oltre 300 pubblicazioni scientifiche e di diversi volumi, tra cui “Dietetica e Nutrizione” e “La Dieta e i Sensi” (Il Pensiero Scientifico Editore), “Felice Fatati una vita singolare” e “La Farmacista di Collestatte” (Thyrus), “Il bambino dai capelli rossi” e “Novecento a fil di penna” (Pacini).
È stato Presidente dell’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI) e della Fondazione ADI, e continua a diffondere una visione multidisciplinare dell’alimentazione, che tiene insieme scienza, cultura e società.
Il “caso Keys”: un classico esempio di verità dimenticate
Può fare un esempio di come questo accade nella storia della nutrizione?
«Il Seven Countries Study di Ancel Keys è emblematico. Sappiamo che ha dimostrato la correlazione tra dieta mediterranea e riduzione delle cardiopatie, ma pochi ricordano che in Paesi come Italia e Giappone – pur con bassa prevalenza di malattie coronariche – l’incidenza di ictus era superiore a quella statunitense. Questo dato è stato ignorato. Solo in seguito Jeremiah Stamler ha messo in luce la relazione tra pressione arteriosa, consumo di sodio e potassio, fibre, vitamine e altri nutrienti.»
C’è poi il tema, spesso taciuto, delle condizioni socioeconomiche.
«Esatto. Keys descrisse la dieta napoletana degli anni ’50 come ideale: minestrone, pasta con salsa di pomodoro e poco formaggio, legumi, pane senza burro, verdure fresche, carne o pesce solo due volte a settimana, frutta e vino. Ma quella non era una scelta consapevole: era povertà. Le classi più abbienti già allora mostravano colesterolemia alta e più malattie coronariche, come negli Stati Uniti. Questo ci insegna che la “dieta salutare” era in realtà frutto di necessità.»
Non una “dieta”, ma uno stile di vita
Oggi l’UNESCO parla di “patrimonio immateriale”. Cosa cambia?
«Nel 2010 la Dieta Mediterranea è entrata nella Intangible Heritage List proprio perché non si tratta di un semplice regime alimentare. È uno stile di vita: convivialità, tempo dedicato ai pasti, cucina condivisa, ricette tramandate, stagionalità. Non a caso la nuova piramide alimentare mette alla base questi comportamenti e non gli alimenti. La salute, dunque, non dipende solo da cosa mangiamo, ma anche da come viviamo il cibo.»
Carne: demonizzata oltre misura
Uno degli alimenti più attaccati oggi è la carne, in particolare quella rossa e di maiale. Qual è la sua posizione?
«Mangiare carne non fa male se il consumo resta entro i limiti consigliati dalla scienza. Il maiale, ad esempio, è parte integrante della nostra cultura gastronomica e ha persino contribuito alla scoperta di funghi e tartufi. Oggi, grazie a selezione genetica e miglioramenti negli allevamenti, la carne suina è molto più magra: il filetto contiene circa 3,4 g di grassi per 100 g e la lonza circa il 4%. Il contenuto di colesterolo è sceso e la percentuale media di grassi è calata del 16% negli ultimi vent’anni.»
Eppure il consumo di carne è stato spesso demonizzato anche da un punto di vista storico…
«Nel mondo antico la carne non era un alimento quotidiano: era un cibo d’eccezione, legato a momenti di sacrificio e banchetto, strumenti di coesione sociale e persino di comunicazione con il divino. Il bue era considerato da Cicerone un “compagno di fatica” e non un animale da macello. L’unico animale allevato quasi esclusivamente per scopi alimentari era il maiale. Questo ci dice che il significato della carne va oltre il mero aspetto nutrizionale.»
I consumi reali: molto più bassi di quanto si pensi
È vero che in Italia si mangiano 80-90 kg di carne a testa ogni anno?
«No, quel dato deriva dai cosiddetti consumi apparenti, che includono anche ossa, pelli, grassi e altre parti non commestibili. Se analizziamo i consumi reali, la fotografia cambia: si parla di circa 38 kg all’anno, pari a 104 g al giorno. Se consideriamo solo carne rossa e salumi, scendiamo a 69 g al giorno, mentre per la sola carne bovina siamo a 24,8 g, ben al di sotto della soglia di 100 g al giorno indicata da OMS e IARC come potenziale rischio.»
Il buon senso deve tornare al centro
In definitiva, qual è il messaggio più importante da trasmettere?
«Dobbiamo liberarci dall’idea di alimenti “buoni” o “cattivi” e recuperare la complessità. La dieta mediterranea è un mosaico fatto di cultura, economia, storia e relazioni sociali. Nessun alimento, preso da solo, può spiegare la salute o la malattia. Serve equilibrio, conoscenza e – soprattutto – buon senso. Solo così potremo trasformare il cibo da semplice nutrimento a strumento di benessere e identità.»
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