Il Senato approva all’unanimità il nuovo reato di femminicidio con pena dell’ergastolo. Un passo avanti simbolico e normativo che però non basta senza educazione, prevenzione e sostegno concreto alle vittime
Un passo significativo nella lotta alla violenza di genere è stato compiuto ieri al Senato, che ha approvato all’unanimità (161 sì su 161 votanti) un disegno di legge che introduce nel codice penale l’articolo 577-bis, definendo il femminicidio come reato autonomo. La novità più rilevante è l’introduzione della pena dell’ergastolo per chi uccide una donna spinto da discriminazione, odio, desiderio di controllo o rifiuto affettivo da parte della vittima.
Cosa prevede il nuovo provvedimento?
Il disegno di legge, che ora passa alla Camera per l’approvazione definitiva, mira a dare un’identità chiara a un crimine troppo spesso minimizzato. L’omicidio sarà riconosciuto come reato autonomo se commesso “in quanto donna”, per motivazioni di genere, possesso, controllo o odio. La definizione è stata estesa per includere i casi in cui l’uccisione avvenga per un rifiuto affettivo o per limitare la libertà della donna, specificando ulteriormente “atto di controllo, possesso o dominio” e il rifiuto a “stabilire o mantenere una relazione affettiva”.
Il provvedimento introduce anche una deroga al limite dei 45 giorni per le intercettazioni in reati gravi contro le donne, limitazioni ai benefici penitenziari e la formazione obbligatoria per gli operatori. Una novità importante riguarda le tutele per le vittime e gli orfani: sono stati stanziati 10 milioni di euro per il supporto agli orfani di femminicidio (estesi anche ai figli di donne gravemente lese ma sopravvissute) e viene potenziato l’accesso autonomo ai centri antiviolenza per i minori coinvolti. Ulteriori miglioramenti nel testo finale del ddl (n. 1433) prevedono l’estensione delle aggravanti ai casi di stalking, maltrattamenti domestici e violenza sessuale, oltre all’introduzione della confisca obbligatoria dei beni e l’ascolto rapido della persona offesa.
Reazioni politiche e unanime consenso
Il clima in Senato è stato solenne e pervaso da un’emozione palpabile, con applausi e soddisfazione bipartisan. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha rimarcato la capacità del Senato di esprimersi “senza distinzioni di appartenenza” su temi così cruciali. La premier Giorgia Meloni ha definito l’Italia tra le prime nazioni ad adottare questa strada, auspicando un iter altrettanto rapido alla Camera. Questa approvazione ha assunto un grande valore simbolico, definita da molti come una “svolta storica” per i diritti delle donne.
Un passo importante, ma non sufficiente
Questo disegno di legge rappresenta un passo avanti significativo, tanto sul piano simbolico quanto su quello operativo. Dare un identikit preciso al reato, con la pena più alta del nostro ordinamento, invia un segnale inequivocabile: la violenza contro le donne non è una tragedia individuale, ma una profonda questione sociale e culturale. La chiarezza normativa e l’attenzione ai figli delle vittime, spesso invisibili, sono svolte positive, in particolare l’erogazione di fondi specifici per gli orfani.
Tuttavia, punire non basta. Se non si accompagna a una prevenzione strutturale, a un’educazione nelle scuole e a una sensibilizzazione continua, il rischio è che questa legge rimanga una reazione tardiva piuttosto che un deterrente efficace. La formazione obbligatoria per i professionisti è utile, ma la vera sfida è cambiare la mentalità collettiva attraverso la cultura, il dialogo e una più equa redistribuzione dei compiti affettivi e domestici.
Inoltre, l’introduzione dell’ergastolo potrebbe incappare in discussioni di costituzionalità sull’effettiva “rieducazione” del condannato, un tema già aperto nella giurisprudenza italiana. In sintesi: è giusto introdurre un reato autonomo e una sanzione elevata, ma permangono lacune significative nella prevenzione, nel cambiamento culturale e nei meccanismi di recupero (o mancato recupero) del colpevole.
Prossimi passi e la sfida futura
L’introduzione dell’ergastolo è un segnale potente, ma non possiamo fermarci al vanto di “essere stati i primi”. Se la Camera confermerà il ddl, avremo una legge più severa. Bene. Ma poi? Ci saranno fondi strutturali per i centri antiviolenza? Avremo protocolli rapidi per proteggere davvero chi denuncia? Ci sarà spazio per percorsi di rieducazione sociale, o solo per il carcere a vita?
Sono domande scomode, ma necessarie. Perché una società non si misura solo dalle pene che infligge, ma da come previene il male.
Se guardiamo oltre confine, vediamo esempi virtuosi. In Spagna, dove il femminicidio è reato autonomo dal 2004, la legge è stata accompagnata da tribunali specializzati, formazione obbligatoria per magistrati e polizia, e campagne educative di massa. Il risultato? Una riduzione costante dei casi più gravi. In Francia, invece, nonostante le leggi severe, la mancanza di prevenzione culturale lascia ancora troppi buchi neri.
Noi, dove vogliamo collocarci? Nella facciata simbolica o nel cambiamento reale?
Questa legge è un passo avanti, senza dubbio. È una vittoria per chi da anni denuncia la violenza di genere come una piaga strutturale, non episodica. Ma non possiamo illuderci che l’ergastolo da solo basti a cambiare mentalità. Serve un’Italia più coraggiosa, che sappia parlare ai ragazzi e alle ragazze prima che la violenza diventi cronaca.
Una legge punisce.
La cultura salva.
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