Annunciata nella notte la “prima fase” dell’accordo di pace tra Israele e Hamas. Washington festeggia, Trump rivendica il merito e punta al Nobel. Ma dietro la parola “pace” resta un campo minato.
Ieri notte è andato in scena un annuncio epocale (o almeno così lo vogliono far passare): Israele e Hamas avrebbero accettato la “prima fase” di un accordo di pace mediato dagli Stati Uniti, che implica il rilascio di ostaggi e un ritiro militare israeliano entro una linea concordata.
Se volessimo guardare con gli occhiali della pace definitiva, oggi sarebbe un giorno da storica liberazione. Ma il mestiere del giornalista ci impone un occhio più freddo: ogni pace nasce con le sue crepe, e questa non fa eccezione.
Le crepe sotto la vernice
Ricordiamoci che questo “accordo” è solo una prima fase. Non risolve nulla di centrale: il governo di Gaza, il destino di Hamas, la disarmament, il confine definitivo, il riconoscimento politico. Questa mezz’ora di pace promessa ha tanti punti interrogativi: quanto durerà? Gli “step successivi” sono lasciati a negoziati futuri, alle mediazioni internazionali, al buon senso (o alla forza). Ma la storia ci ha insegnato che le tregue tra Israele e Hamas spesso finiscono in ritorno al conflitto.
Inoltre, chi paga il prezzo vero? I civili. A Gaza decine di migliaia sono già morti, feriti, resi senza casa. L’entità del disastro materiale è immensa, e il “ritiro israeliano” può far sì che tutto resti sul carta ma non nella realtà quotidiana dei palestinesi. C’è inoltre il problema del timing: l’annuncio arriva proprio due anni dopo la tragedia del 7 ottobre che ha scatenato l’intero conflitto. Un anniversario carico di sangue e memoria, che rende la retorica della pace ancora più ambigua.
Il ruolo di Trump: mediatore o protagonista?
Qui entriamo nella parte più intrigante (e più pericolosa) della vicenda: Donald Trump, che subito reclama meriti, manovra l’immagine, coltiva l’idea di un Nobel per sé. Il presidente americano ieri ha postato su Truth Social che “Israel and Hamas have both signed off on the first Phase of our Peace Plan. BLESSED ARE THE PEACEMAKERS!” Ha già cominciato a presentarsi come “presidente di pace”, come se fosse al centro del thriller diplomatico del Medio Oriente.
I suoi “meriti” sono contestati: sulle sue affermazioni che avrebbe “chiuso sette guerre”, sui suoi ruoli reali nei negoziati, sulle mediazioni che sono state condotte anche da Qatar, Egitto, Turchia. Nemmeno l’idea del Nobel è nuova: c’è chi lo ha già nominato, chi ha scritto al comitato Nobel, chi urla “Nobel a Trump!” nelle piazze di Gaza e Tel Aviv.
Io mi chiedo: il Nobel per la pace è un trofeo da collezione politico o una medaglia di responsabilità? Se Trump lo ottiene sulla base di un accordo “prima fase” – che può svanire come fumo – sarà una beffa storica per chi ha sofferto davvero.
Equilibrio e realismo: le responsabilità nascoste
Il problema con gli accordi mediati è che offrono saldi simbolici: “ritiro”, “rilascio ostaggi”, “cessate il fuoco”. Ma non toccano la radice del conflitto: occupazione, diritti nazionali, struttura di potere, sfiducia storica.
Israele potrà sempre minacciare di riprendere azioni militari se Hamas non rispetta i patti. Hamas potrà sempre recriminare che le sue richieste politiche restano insoddisfatte. Nel frattempo il popolo di Gaza continua a vivere tra macerie, fame, traumatizzati. La pace che non restituisce dignità, territori, prospettiva politica non è pace: è una pausa armata. Allo stesso tempo, il governo israeliano (e Netanyahu) non può permettersi di apparire debole davanti agli elettori: dovrà tradurre i patti in “sicurezza reale”, e qui il margine è risicato.
Infine: le potenze regionali, gli attori internazionali, l’Onu, l’Unione Europea – tutto ciò che è stato tirato in causa – avranno un ruolo decisivo. Ma finora sono spettatori, non registi principali.
Cosa guardare da qui a breve
Nei prossimi giorni capiremo se quanto annunciato stanotte sopravviverà: quanti ostaggi saranno effettivamente liberati, quanto Israele retrarrà le sue forze, chi controllerà Gaza, cosa accadrà se una delle parti tradisce il patto.
E poi il Nobel: il comitato norvegese avrà poche ore per giudicare se la “prima fase” di un accordo – fragile, incompleto – è sufficiente per una pace che non è ancora pacificata.
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