L’Umbria riceve più risorse pro capite per la sanità rispetto alla media nazionale, ma cresce il numero di cittadini che rinunciano alle cure. Liste d’attesa infinite, strutture territoriali in ritardo e un sistema che si regge su contraddizioni sempre più evidenti.
Un paradosso tutto umbro
Secondo l’ultimo rapporto Gimbe, l’Umbria è tra le regioni che ricevono più fondi pro capite per la sanità: 2.232 euro contro la media nazionale di 2.181.
Eppure, i numeri raccontano un’altra verità: più di 104mila cittadini umbri (il 12,2% della popolazione) nel 2024 hanno rinunciato a una o più prestazioni sanitarie.
È una percentuale più alta della media italiana (9,9%) — un dato che pesa, perché non parliamo di una regione povera di risorse, ma di una che non riesce più a trasformarle in servizi reali.
Liste d’attesa e costi: le due facce dell’esclusione
Le cause principali sono due, e entrambe note ma mai risolte:
- Le liste d’attesa, che si allungano sempre più: +51% in un solo anno le rinunce dovute ai tempi eccessivi.
- I costi, che scoraggiano l’accesso: +26% le rinunce per motivi economici.
È un doppio colpo alla fiducia dei cittadini. Quando il sistema pubblico diventa lento e costoso, la tentazione di rivolgersi al privato — per chi può permetterselo — è inevitabile. Ma per molti, resta solo la rinuncia.
Le promesse mancate del territorio
Il fallimento più evidente è quello della sanità territoriale.
Le Case della Comunità, gli ospedali di comunità, gli infermi di famiglia dovevano rappresentare la svolta.
In realtà, su 22 strutture previste in Umbria, solo 6 sono operative con almeno un servizio attivo, e solo 5 rispettano pienamente i requisiti minimi fissati dal Ministero.
La rete locale resta un disegno incompiuto, mentre il sistema continua a ruotare attorno agli ospedali principali, con territori interni sempre più scoperti.
Un modello che rischia il collasso
Il problema non è solo umbro. Gimbe lo dice chiaro: in tre anni la sanità italiana ha “perso” 13,1 miliardi in termini reali.
E intanto le famiglie sborsano 41,3 miliardi per spese sanitarie private, spesso per cure che dovrebbero essere garantite.
È una privatizzazione silenziosa, che avanza dietro l’apparenza dell’efficienza.
L’Umbria, in questo contesto, è un laboratorio: mostra come anche una regione piccola, con fondi adeguati e un sistema teoricamente equilibrato, possa cadere in una spirale di disservizi.
Quando la cura diventa un lusso
In un Paese dove il diritto alla salute è scritto nella Costituzione, il dato più inquietante non è economico ma sociale: la rinuncia alle cure è diventata un comportamento di massa.
È il segnale di un sistema che ha perso la sua equità di base.
In Umbria, la situazione è aggravata dall’invecchiamento della popolazione e dalla carenza cronica di medici di base: due elementi che fanno esplodere la domanda e paralizzano la risposta.
Dunque non mancano i fondi: manca una visione.
Si spendono risorse senza cambiare l’architettura del sistema.
Si parla di sanità di prossimità, ma si resta ancorati al modello ospedale-centrico, che drena energie e personale.
Serve una rivoluzione organizzativa, non l’ennesimo piano d’intervento.
E serve una classe dirigente regionale capace di scegliere: tra mantenere lo status quo o restituire ai cittadini il diritto di curarsi senza paura, senza attese e senza debiti.
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