Un viaggio che parte dalla pittura a L’Avana, attraversa la Colombia e trova casa in Umbria, dove l’argilla diventa linguaggio, identità e visione. Liuva Maqueira Gomez racconta come tradizione, innovazione e vita quotidiana si intrecciano nella sua ceramica unica e profondamente umana. Intervista esclusiva per UmbriaReport
Arrivata da L’Avana trent’anni fa, oggi Liuva Maqueira Gomez è una delle voci più originali della ceramica contemporanea umbra. Il suo laboratorio Ljudesign è un luogo in cui la materia sembra prendere fiato, cambiare pelle, trasformarsi in emozione pura.
Ma la storia di Liuva non comincia con l’argilla. Nasce dalla pittura, dal colore, dagli anni di formazione all’Accademia San Alejandro, dalla litografia tradizionale su pietra, dall’olio sperimentato in Colombia. Un percorso rigoroso, vibrante, che l’ha preparata – senza che lei lo sapesse – all’incontro definitivo con la ceramica.
L’intervista
D – Liuva, nel tuo percorso c’è un punto di svolta molto concreto: Deruta. Ce lo racconti?
R – «Sì, ed è una storia molto semplice. Mia figlia aveva sei anni – oggi ne ha ventotto – e volevo farle conoscere Deruta. Sono entrata in una bottega e ho sentito un richiamo forte, quasi fisico. Sono tornata a casa con un forno. Da lì è nato tutto. La ceramica mi permetteva di restare madre presente, di lavorare la notte, nei ritagli di tempo, conciliando vita familiare e arte. Per dieci anni ho seguito corsi, studiato tecniche, sperimentato. È stato un viaggio necessario.»
D – Nel tuo catalogo c’è una frase che colpisce: “Distinguere tradizione e innovazione – quando si parla di ceramica – è impossibile”. Perché?
R – «La ceramica è un confine che non esiste: è tradizione, innovazione, artigianato, arte pura. La sapienza antica è la base. Ma quella stessa sapienza permette di creare linguaggi nuovi, sorprendenti, inattesi. Io sono arrivata alla ceramica dopo un percorso lungo, accademico, tecnico. La mia formazione in America Latina, dalla pittura alla litografia, mi ha dato strumenti che oggi uso sulla terra: il gesto, la precisione, la libertà.»
D – Hai costruito un ponte tra Cuba, Colombia e Italia. In che modo queste radici si incontrano nella tua ceramica?
R – «Non si annullano: si sommano. Cuba è ritmo, sensualità, movimento. La Colombia mi ha insegnato disciplina, tecnica, studio. L’Italia mi ha regalato la storia della ceramica, la tradizione etrusca, l’equilibrio delle forme, gli smalti, gli ossidi. Il mio lavoro è un dialogo tra questi mondi, un equilibrio tra passato e presente.»
D – Tu lavori molto con la tecnica del colombino, che richiede tempo, pazienza, un rapporto quasi fisico con la materia. Perché questa scelta?
R – «Perché è una tecnica profondamente umana. La forma cresce cordone dopo cordone, come una costruzione organica. È un approccio diverso dal tornio elettrico: è più lento, più meditativo. La mia manualità di pittrice mi ha portata naturalmente verso questa lavorazione.»
D – Nei tuoi pezzi domina il movimento, ma anche una fortissima aderenza tra forma e decorazione. È un tratto che molti critici ti riconoscono. Per te cosa significa?
R – «Significa rispetto. La decorazione non deve mai essere un “di più”. Deve nascere dalla forma. È questo che dà vita ai miei vasi “fioriti”: le calle che si moltiplicano sulle superfici, come se la materia imitasse la natura. Ogni corolla, ogni piega, ogni ombra deve appartenere alla forma, non sovrapporsi.»
D – L’uso del colore nei tuoi pezzi è molto particolare, quasi pittorico. Da dove viene?
R – «Dal mio primo mestiere: sono una pittrice. Quando lavoro uno smalto, quando mischio ossidi e cristalli, quando decido una colatura… sto dipingendo. A volte lascio l’argilla nuda, altre volte la rigenero con smalti traslucidi. Altre ancora sperimento ossidi metallici che danno superfici quasi ingannevoli, tra organico e metallico. Il colore è una metamorfosi continua.»
D – Molte tue opere sono monocrome – bianche, rosse, verdi – altre invece esplodono in contrasti metallici o filigrane di porcellana. Come scegli la direzione?
R – «È la materia che guida. La porcellana, ad esempio, mi permette di creare filigrane sottilissime come nel centrotavola Esme: la lascio in finitura biscuit perché voglio che la luce la attraversi. Altre volte invece cerco la densità, la lucentezza, l’impatto visivo. Ogni serie ha un’anima: organica, geometrica, luminosa, o più urbana.»
D – C’è una parte della tua produzione, quella più geometrica, che sembra parlare un altro linguaggio. Da dove arriva?
R – «Dal design. Alcune lampade – penso a Kaylee, Faye, Rachyl – nascono da una tensione verticale, più razionale. Qui entra in gioco un’altra fonte di ispirazione: i tessuti. Spesso mi innamoro del velluto o della trama di un paralume e da lì nasce tutta una collezione. Il tessuto mi suggerisce la palette, la forma, l’atmosfera.»
D – Il tuo processo creativo è complesso: foggiatura, essiccatura, cotture, smaltature. C’è un momento che senti più tuo?
R – «La foggiatura, sempre. È il momento in cui l’argilla è ancora docile, malleabile, piena di possibilità. Poi amo la smaltatura, perché è il punto di incontro tra controllo e rischio: lo smalto può obbedire o ribellarsi. E il fuoco decide il resto.»
D – Hai partecipato a numerose mostre collettive in Umbria, da Spoleto a Leonessa fino a Gubbio. Quanto hanno contribuito alla tua crescita artistica questi contesti espositivi?
R – «Sono stati momenti fondamentali. Esporre allo Spoleto Art Festival, al Festival Arte di Leonessa o alla mostra Arte incontra Artigianato a Gubbio mi ha permesso di confrontarmi con linguaggi diversi, con artisti italiani e internazionali, e soprattutto con un pubblico attento alla sperimentazione. Per me ogni mostra è un dialogo: porto il mio lavoro fuori dal laboratorio e lo vedo respirare in un altro spazio, in un’altra luce.
D – L’artigianato e l’arte, per te, sono due elementi separati o una sola cosa?
R – «Una sola cosa. Alla ceramica si chiede di essere funzionale e bella allo stesso tempo. All’arte si chiede di essere eterna e immateriale. Io cerco di tenere insieme tutto: l’uso, la forma, la storia, il gesto, la luce. I miei oggetti devono poter essere vissuti e contemplati. Devono funzionare nella vita quotidiana, ma anche aprire uno spazio emotivo.»
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