
Non un sostituto ma un potenziatore: l’intelligenza artificiale stimola i processi mentali, rafforza creatività e giudizio critico. Ma senza un’educazione all’uso consapevole rischia di trasformarsi da strumento di libertà a nuova forma di dipendenza.
C’è un’idea, forse la più convincente tra quelle oggi in circolazione, che riguarda l’intelligenza artificiale: non è destinata a sostituire l’uomo, ma a potenziarne le capacità. Non parlo soltanto di una macchina che sbriga compiti ripetitivi, ma di uno strumento che, se usato e progettato con intelligenza, diventa un sostegno cognitivo, un tutor discreto e costante, un partner creativo, persino un acceleratore di ricerca. Insomma, un alleato che ci obbliga a ragionare meglio.
Ciò che colpisce davvero è questo: l’AI non consegna soltanto contenuti, ma incide sulla forma stessa del nostro ragionare, alterando e stimolando i processi cognitivi. È come un dialogo che ti costringe a riformulare, a verificare, a mettere in discussione ciò che davi per scontato. Lo vedo bene nelle mie diverse attività: quando preparo un’intervista, l’AI mi aiuta a simulare le possibili repliche dell’interlocutore, spingendomi così a raffinare le domande. Quando analizzo un report economico, filtra i dati e me li restituisce in forma sintetica, ma la parte decisiva resta mia: interpretare, collegare, dare senso. Persino nel lavoro di webmaster, quando mi trovo a progettare o gestire un sito, l’AI diventa un supporto che apre scenari alternativi: suggerisce soluzioni di design, propone ottimizzazioni SEO, individua errori nascosti nel codice. Non fa il lavoro al posto mio, ma mi obbliga a capire meglio le scelte, a verificare, a valutare nuove possibilità. È un allenamento mentale continuo, non una scorciatoia.
Il punto di vista della scienza
A condividere questa visione ci sono voci autorevoli della comunità scientifica. Yann LeCun, chief scientist di Meta e premio Turing, insiste che l’uomo resterà sempre al centro, in ruoli di controllo e supervisione: l’AI sarà un partner, non un sostituto. Fei-Fei Li, che guida lo Stanford Human-Centered AI Institute, ribadisce che lo sviluppo deve essere centrato sull’essere umano, con l’obiettivo di amplificare creatività, apprendimento e giudizio critico. Demis Hassabis, fondatore e CEO di DeepMind, parla di una rivoluzione più rapida e vasta di quella industriale, capace di moltiplicare scoperte scientifiche, migliorare la produttività e aprire nuovi orizzonti come la medicina di precisione. Al tempo stesso, figure come Geoffrey Hinton e Stuart Russell non smettono di ricordarci che la potenza dell’AI comporta rischi imprevedibili e richiede regole, trasparenza, governance. Non è un invito a demonizzare, ma a restare vigili.
Numeri che parlano
I dati confermano questa ambivalenza. Uno studio del 2023 di Shakked Noy e Whitney Zhang pubblicato su Science ha mostrato che l’uso di ChatGPT riduce i tempi di lavoro del 40% e aumenta la qualità dei testi del 18%. È la prova che l’AI può davvero migliorare la produttività cognitiva, ma anche l’evidenza che senza spirito critico il rischio è scivolare nell’automatismo.
Personalmente non credo affatto alla previsione secondo cui l’AI ci renderà pigri. È vero l’opposto: ci costringe a pensare meglio, a non accontentarci della prima risposta. È un esercizio di ginnastica mentale, un pungolo che stimola creatività e lucidità. Non immagino quindi un futuro in cui l’uomo verrà sostituito dalla macchina. Vedo piuttosto un futuro in cui uomo e macchina, insieme, saranno capaci di ampliare le possibilità del pensiero umano.
Una patente per l’AI
Ed è qui che, a mio avviso, entra in gioco un punto decisivo: non tutti dovrebbero poter usare l’AI senza alcuna formazione. Così come non ci mettiamo al volante senza aver conseguito una patente, credo che dovremmo immaginare una “patente per l’intelligenza artificiale”. Non un vincolo burocratico, ma un percorso educativo che introduca alla prompt literacy, alla valutazione critica delle risposte, al fact-checking, a una consapevolezza dei limiti e delle potenzialità dello strumento.
Il parallelismo con l’automobile non è casuale: l’AI, come l’auto, è un mezzo che amplifica le nostre possibilità. Ma se guidata senza criterio, può causare danni irreparabili. Qui la filosofia ci viene in soccorso. Platone, nel Fedro, ammoniva che la scrittura avrebbe indebolito la memoria dell’uomo perché affidava al segno esterno ciò che prima era esercizio interiore. Aveva torto? In parte. La scrittura non ha reso gli uomini più smemorati, li ha resi diversi: ha trasformato le forme del sapere, ha creato nuove possibilità di pensiero e trasmissione. Con l’AI ci troviamo di fronte a un passaggio simile.
La “patente” non è quindi un’imposizione, ma un atto di responsabilità: è il riconoscere che ogni tecnologia capace di modificare la mente e i modi di pensare deve essere governata. Non possiamo illuderci che l’intelligenza artificiale ci renda automaticamente più intelligenti. Ci obbliga, piuttosto, a scegliere se vogliamo essere guidati o guidare. E in questo passaggio la libertà diventa cultura: non basta avere accesso all’AI, occorre saperla usare con consapevolezza per restare padroni della nostra intelligenza e non sudditi di quella artificiale.
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