
Dentro un castello seicentesco, lo chef Donatello trasforma la cucina umbra in esperienza autentica: passione, memoria e stagionalità guidano ogni piatto, dalla faraona al tartufo, con un legame profondo con produttori e territorio.
Cucinare ogni giorno dentro un castello del Seicento non è un’esperienza comune. Per Donatello, chef della Locanda di Casigliano, in provincia di Terni, è una responsabilità che affronta con orgoglio e dedizione: «Fa sicuramente un certo effetto e mi auguro di esserne all’altezza». Ma dietro la suggestione delle mura storiche c’è un percorso fatto di passione, sacrifici e radici profonde.
La sua storia in cucina comincia presto, quasi per necessità: «Ho iniziato a cucinare a soli 8 anni: i miei genitori lavoravano tanto, e mi piaceva far trovare loro qualcosa di buono come le tagliatelle fatte in casa». Da lì, un apprendistato importante con Gianfranco Vissani, una prima esperienza da capo cuoco appena diciottenne, poi la pizzeria al taglio a San Fortunato aperta con la madre, la creazione del ristorante Il Donatello, fino all’incontro con Diego e l’approdo alla Locanda di Casigliano. Un percorso da autodidatta visionario che ha saputo unire la tecnica all’istinto.
Quando gli chiediamo di descrivere la sua cucina in tre parole, Donatello non ha dubbi: «Passionale, dinamica e tradizionale». Tre parole che raccontano anche il suo legame inscindibile con il territorio umbro: «Per quanto io abbia studiato tutti i tipi di cucina immaginabili, non riesco a separarmi da quella che è l’Umbria».
La faraona è il suo piatto bandiera, simbolo di un’identità gastronomica che guarda alla stagionalità e alla versatilità: «È sempre presente nei miei menù. Cambiando la farcitura si adatta a ogni stagione: rappresenta perfettamente la mia filosofia di usare sempre ingredienti freschi e di stagione». Ma è anche il piatto della memoria, quello che rivisita con orgoglio, senza mai stancarsi: «A costo di sembrare ripetitivo, dirò ancora la faraona».
Nella sua dispensa non mancano mai il tartufo e, naturalmente, la faraona. Ma non è solo questione di ingredienti: è l’approccio alla cucina a fare la differenza. Per Donatello, i produttori locali non sono semplici fornitori, «li considero parte della mia brigata». Un’alleanza che si traduce in autenticità, gusto e racconto.
E i turisti, soprattutto stranieri, come reagiscono davanti a questa cucina così territoriale? «Rimangono sempre piacevolmente sorpresi. La cucina umbra è ancora troppo sottovalutata, ma quando viene scoperta conquista». Sorprende, invece, la risposta quando gli si chiede dell’atmosfera del castello: «Non lascio che sia il luogo a influenzare la mia cucina, ma che sia la mia cucina a influenzare l’atmosfera del luogo». Un’idea precisa, quasi filosofica, che ribalta l’ovvio e mette al centro la forza evocativa del piatto.
Se deve scegliere una stagione, punta sull’autunno: «Adoro i suoi prodotti, come le castagne». Ma c’è un piatto che racconta meglio di tutti il Donatello bambino, cresciuto tra farina e affetti: la Pizza di Pasqua umbra, che preparava con la nonna e ora impasta con i suoi figli.
La ristorazione, ammette, sta cambiando. «Da una parte ci sono sempre più appassionati del buon cibo, dall’altra tantissime persone che cercano solo il risparmio, tra fast food e all you can eat». Ma il suo sogno — che sta diventando realtà — è un altro: «Vorrei tanto lavorare con i miei figli».
Infine, quando gli chiediamo cosa vorrebbe lasciare a chi si siede a tavola da lui, non esita: «Il calore di una cucina tradizionale». Quella vera, radicata, sincera. Quella che ti rimane addosso anche dopo il dessert.





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